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Sul punto di saltare dalla finestra

 

Lettera di «lucida disperazione» scritta da Franz Kafka a Max Brod la sera del 7 ottobre 1912, così riportata nel secondo volume della biografia di Reiner Stach, Kafka. Gli anni delle decisioni.
Sono trascorsi 54 giorni dal suo primo incontro con Felice Bauer, evento minuziosamente pianificato (ma per altri motivi) dall’amico Brod «che avrebbe cambiato in modo significativo la storia della letteratura tedesca, e forse anche della letteratura mondiale».
Kafka, che anche grazie a quell’incontro sta vivendo un momento di furore creativo mai prima conosciuto, è costretto dalla famiglia ad abbandonare per due settimane la scrittura per dedicarsi alla fabbrica di asbesto del cognato Karl Hermann, di cui è comproprietario e amministratore. Una prospettiva, questa, che unita ai contrasti famigliari e agli «ostacoli allo scrivere» lo getta in uno stato di turbamento e angoscia.


Disegno di Franz Kafka

Kafka scrisse una pagina; poi posò la penna, si alzò, andò alla finestra e osservò i lampioni elettrici del ponte Čech, avvolti nella nebbia. In quella stessa notte descrisse in una lunga lettera a Brod la lucida disperazione che lo colse in quel momento:


[Capivo] con assoluta chiarezza che ora per me c’erano solo due possibilità: aspettare che tutti andassero a dormire e buttarmi dalla finestra, oppure nelle prossime due settimane andare ogni giorno in fabbrica e nell’ufficio di mio cognato. La prima mi offriva la possibilità di togliermi ogni responsabilità, sia per gli ostacoli allo scrivere come per la fabbrica abbandonata; la seconda interrompeva comunque la scrittura — non posso certo rinunciare al sonno per due settimane consecutive — ma mi consentiva, in presenza di una sufficiente forza di volontà e speranza, la prospettiva di riprendere forse fra due settimane il lavoro dove l’ho interrotto oggi.
E così non mi sono buttato di sotto, e nemmeno è tanto forte la tentazione di trasformare questa lettera in una lettera d’addio (al momento la mia ispirazione è diretta altrove). Sono rimasto a lungo in piedi alla finestra appoggiato al vetro, e più di una volta ho provato il desiderio di spaventare con la mia caduta l’esattore dell’imposta che sta sul ponte.
Ma per tutto il tempo mi sono sentito troppo saldo perché potesse farsi strada in me, fino a un punto decisivo, la decisione di sfracellarmi sul marciapiede. E poi mi sembrava che rimanere vivo interrompesse di meno la mia scrittura — sempre che si possa parlare soltanto, soltanto di un’interruzione — rispetto all’essere morto, e che nel tempo che passerà fra il romanzo iniziato e la sua prosecuzione fra 14 giorni non sarò davvero in fabbrica, come sembrerà ai miei genitori per loro soddisfazione, e nella mia mente mi muoverò all’interno del romanzo e ci vivrò dentro.
Carissimo Max, se ti scrivo tutto ciò non è per avere la tua opinione, perché non puoi averne una, ma siccome ero fermamente deciso a buttarmi dalla finestra senza una lettera d’addio — si avrà pur diritto a essere stanchi prima di morire — e ora invece torno ad abitare la mia stanza come al solito, volevo scriverti al suo posto una lunga lettera di arrivederci, ed ecco qua, l’ho scritta.


Reiner Stach, Kafka. Gli anni delle decisioni, trad. it. di Mauro Nervi, il Saggiatore, Milano, 2024, pp.159-160

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