Momento clic!
Oggi un articolo di Open dà conto dei risultati di un’ampia indagine della Commissione europea in merito al fenomeno dell’antisemitismo e alla sua percezione da parte dell’opinione pubblica del vecchio continente.
Tra qualche giorno uscirà nelle librerie Antisemitismo. Una storia di oggi e di domani, l’ultimo lavoro della storica Deborah E. Lipstadt, nota al grande pubblico soprattutto per la vicenda processuale che la vide contrapposta al negazionista David Irving e ricostruita nel film La verità negata.
In questo libro, pubblicato da Luiss University Press nella traduzione di Chiara Veltri, Lipstadt scava fino a toccare le radici dell’antisemitismo attraverso un espediente narrativo di fantasia: la corrispondenza a distanza tra l’autrice e due personaggi inventati — la studentessa Abigail e il collega Joe — ispirati a studenti e colleghi incontrati nei suoi anni di studio e insegnamento.
Mentre lavoravo al libro mi sono sentito in imbarazzo. Sicuramente, ho pensato, almeno una volta nel corso della mia vita avrò detto e/o fatto qualcosa che, alle orecchie e/o agli occhi dell’autrice, mi avrebbe automaticamente fatto entrare in una delle categorie di antisemiti così ben spiegate da Lipstadt: quella dell’antisemita inconsapevole.
L’antisemita inconsapevole è una persona che è altrimenti gentile e animata da buone intenzioni, completamente inconsapevole di aver interiorizzato stereotipi antisemiti e di perpetuarli. L’unica reazione giusta, per quanto difficile, è dire educatamente a questa persona che le sue parole rientrano nella categoria di un insidioso e offensivo stereotipo etnico.
Ricordo, per esempio, quelle pause pranzo a base di pizza farcita e chinotto trascorse, da solo o in compagnia, nella caffetteria kosher di via Padova, a Roma, quando, seduto al tavolino di fronte alla vetrata che dava sulla via, osservavo i tanti ebrei ortodossi passeggiare su e giù lungo la strada, con i loro abiti scuri sopra la camicia bianca e il cappello nero da cui sbucavano i peyot, i caratteristici boccoli o riccioli laterali. O i numerosissimi kippot indossati da bambini, adolescenti, giovani e meno giovani, soprattutto nei giorni in cui qualche ricorrenza ebraica trasformava un’anonima strada in una via animata e festosa.
Ogni volta, di fronte all’esibizione di quei segni di appartenenza, un retropensiero subdolo, e inconsapevole per l’appunto, si affacciava tra un pensiero e l’altro. Non sono mai stato in grado di definire quella sensazione, né di darle un nome: una punta di fastidio e disagio, forse, motivato da nulla di preciso, da nulla di razionale. Cose a cui nemmeno ti accorgi di pensare, sensazioni che vanno e vengono senza, apparentemente, lasciare traccia, e che invece, alla lunga, inquinano i pensieri.
Ora, forse, ho capito di che si tratta(va): avevo interiorizzato un pregiudizio, come dice Lipstadt, premessa che conduce alla formulazione di stereotipi talmente introiettati da passare del tutto inosservati. Fino a quando, si spera, non arriva qualcuno ad accendere la spia, a fare clic! Perché «se non si sa definire una cosa, non la si può né affrontare né combattere».