Fotografare la propria vita
Lo scorso 12 dicembre Vogue ha pubblicato un’intervista di Alessia Glaviano a Francesca Sorrenti, madre di Davide, intitolata «Davide Sorrenti ArgueSKE 1994-1997. Fotografare la propria vita».
Se fossi un biografo, sceglierei la vita di quello che è considerato uno dei più importanti fotografi della New York degli anni Novanta per comporre un’ideale (e forse strampalata) trilogia insieme ad altre due esistenze tormentate: quelle di Edoardo Agnelli, il rampollo ribelle, e di Marco Donat Cattin, il figlio del potente ministro democristiano diventato capo militare di un gruppo terroristico. Magari ci torneremo.
Fortunatamente, però, biografo non sono, ma da un annetto a questa parte il mio desiderio di saperne di più sulla bella e tragica vita di Davide Sorrenti è stato esaudito da ben due opere meritorie: il documentario di Charlie Curran See Know Evil e il bellissimo ArgueSKE. 1994-1997 scritto appunto dalla mamma:
Un tributo indispensabile per proteggere il lavoro di Davide da superficiali preconcetti e da un giudizio storico anche troppo propenso a rimuoverne la presenza. Ma soprattutto un gesto d’amore che incastona Davide nella storia di una famiglia ad altissima creatività.
Uno dei passaggi più belli dell’intervista di Vogue è quello in cui Francesca Sorrenti ricorda l’approdo della famiglia in America, da Napoli, quando Davide aveva solo dieci anni:
All’inizio, per Davide è stato un trauma lasciare l’Italia, con la nostra vita agiata, la bella casa, gli amici, per ritrovarsi d’un tratto in un one-bedroom apartment. Era un tipo particolare, fuori dagli schemi, parlava usando un gergo da gang… Era l’opposto della sorella e del fratello, che erano due ragazzini molto a modo. In Italia andavano tutti e tre al Grenoble, una scuola francese. La gente si meravigliava di Davide, uno “homeboy” che amava l’arte, giocava a golf, faceva skateboarding, adorava l’opera e cantava La Traviata sotto la doccia. Aveva una voce favolosa. […] È sempre stato una persona speciale. Prima ho detto che era un vero scugnizzo napoletano, però non mi riferivo agli scugnizzi di oggi. Faceva pensare più a un personaggio degli anni ’40 o ’50, come se ne vedono nei vecchi film di De Sica. Pur essendo diventato americano, quando tornava a Napoli parlava con tutti per la strada, cosa che peraltro faceva anche a New York. Era tutto un “Hey, how you doing?”. Era sempre allegro. È rimasto piccolo di statura fino a diciannove anni, poi gli hanno somministrato una cura a base di ormoni per aiutarlo con la talassemia, e quando è morto era più alto di me, ma per la maggior parte della sua vita è stato sempre più basso dei suoi amici. Ma aveva un carisma fortissimo, e io non smettevo mai di stupirmi nel sentirlo dire cosa fare o non fare a ragazzi che erano anche un metro più alti di lui.
In un altro passaggio molto intenso dell’intervista, la mamma ricorda così la storia di questa foto, The Fish; l’ultima trovata nell’ultimo rullino scattato da Davide:
Eravamo in Messico e stavamo per tornare a New York. Pensa, lui è morto il 3 febbraio, e il 2 febbraio stavamo correndo per non perdere l’aereo. Ricordo che eravamo in spiaggia e io gli dicevo: “Davide, devi uscire dall’acqua!”. Lui si volta e mi guarda: l’acqua sul suo corpo brillava alla luce del sole, e all’improvviso ho provato una sensazione di tristezza. Gli ho ripetuto di uscire dall’acqua e lui ha ubbidito. In quella, è arrivata un’onda particolarmente alta, che ha travolto alcuni grossi pesci. Uno è finito sulla battigia e Davide lo ha raccolto. “Buttalo in acqua e andiamocene!”, gli dico. E lui: “No. C’è quella signora, quella contadina laggiù, che voleva prenderne uno e non ci è riuscita. Lasciamelo dare a lei”. È andato da quella donna e, dopo averle dato il pesce, le ha chiesto se poteva fotografarla. Il giorno dopo era tutto finito. Quella foto era stata la sua lettera d’addio.