Bianco

 

American Psycho parlava di cosa significasse essere una persona immersa in una società con cui era in disaccordo e di che cosa accadeva quando si accettava di vivere secondo i valori di questa pur sapendo che erano sbagliati. L’ansia e l’autoinganno ne erano i punti focali. La follia si insinuava e diventava irrefrenabile. Questo era il risultato del mettersi a rincorrere il Sogno americano: isolamento, alienazione, corruzione, il vuoto consumista schiavo della tecnologia e della cultura delle corporation. Tutti i temi del romanzo sono ancora dominanti tre decenni dopo, quando l’uno per cento dell’umanità è a un tratto più ricco di quanto nessun essere umano sia mai stato in precedenza, un’epoca in cui un jet equivale a un’auto e un affitto milionario è diventato realtà. New York dal 2016 in poi è stata American Psycho all’ennesima potenza. E malgrado le connessioni garantite da internet e dai social, molte persone hanno cominciato a sentirsi perfino più isolate e sempre più consapevoli che l’idea stessa dell’interconnessione non è altro che un’illusione. Cosa che sembra particolarmente dolorosa quando siedi solo in una stanza e fissi uno schermo luccicante che ti promette di poter accedere all’intimità di un infinito numero di vite altrui, una condizione che rispecchia la solitudine e l’alienazione di Bateman; può avere tutto, eppure quel vuoto insaziabile rimane. Questi sentimenti erano anche i miei all’epoca in cui vissi nell’appartamento sulla tredicesima strada est mentre gli anni Ottanta tramontavano.

Bret Easton Ellis, Bianco, Einaudi 2019, p. 233

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