18 gennaio 1992 — Due ricordi per Eluana
Oggi, ma trent’anni fa, mentre rientrava a casa da una festa in un paese dalle parti di Lecco, la ventunenne Eluana Englaro perdeva il controllo della propria auto e finiva contro un palo della luce prima e un albero poi, subendo la frattura della colonna vertebrale e danni cerebrali irreversibili.
Aveva così inizio una lunga e pietosa vicenda che ha contribuito, insieme a tante altre, a cambiare forse per sempre la percezione dell’opinione pubblica italiana nei confronti del fine vita e del diritto dell’individuo (o di chi ne fa le veci) a decidere del proprio destino.
Protagonista di questa vicenda, oltre a Eluana, è stato il suo papà Beppino, nominato tutore della figlia quasi quattro anni dopo l’incidente, quando i medici già da tre avevano dichiarato la giovane donna in stato vegetativo permanente, anche se in grado di respirare in maniera autonoma.
Da quel 19 dicembre 1996 l’uomo dava così inizio all’iter legale per ottenere l’autorizzazione a interrompere l’alimentazione artificiale alla figlia. Una battaglia durata undici anni, scandita da 16 sentenze della magistratura (italiana ed europea) e conclusasi il 13 novembre 2008, quando la Corte di Cassazione respingeva il ricorso della procura di Milano contro la sentenza della Corte d’Appello del precedente 9 luglio che aveva accolto la richiesta di Beppino Englaro di interrompere l’alimentazione e l’idratazione artificiale della figlia.
Nei tre mesi intercorsi da quella sentenza alla sera del 9 febbraio 2009, quando arrivava la notizia della morte di Eluana, il governo allora guidato da Silvio Berlusconi ha cercato in tutti i modi di impedire che a quella sentenza venisse dato corso, arrivando a presentare, il 6 febbraio, un decreto legge che ordinava di proseguire l’alimentazione fino all’approvazione di una legge sul testamento biologico. Tuttavia il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano rifiutò di firmare il provvedimento, giudicandolo «incostituzionale, in contrasto con sentenze passate in giudicato».
È a quelle ore che risale il primo di due ricordi personali legati alla vicenda di Eluana.
Ricordo n. 1
Mi ritrovo appoggiato con la schiena alle transenne che delimitano il selciato di piazza Colonna, insieme a tanta altra gente, e davanti a me risplende la facciata di palazzo Chigi. Sto partecipando a un sit-in organizzato, tra gli altri, dall’Associazione Luca Coscioni per protestare contro i tentativi del governo di impedire che sia dato seguito alla sentenza della Corte di Cassazione sul caso Englaro. Ancora non lo so, ma quella sarà la mia ultima manifestazione di piazza (forse è anche per questo che la ricordo in maniera così nitida).
Pochi minuti prima ho scattato una foto a uno striscione, firmato “Diritti umani”, su cui c’è scritto: … CHI È MORTO LO VOLETE VIVO … CHI È VIVO LO VOLETE MORTO.
Solo dopo aver portato il rullino a sviluppare mi accorgo del volto di quel signore in primo piano e dei suoi occhi grigio-azzurri che non mi abbandoneranno più.
Ricordo n. 2
Sono gli ultimi giorni di luglio del 2015. È un’estate molto calda anche in Friuli, mio padre sta morendo e io e mia sorella siamo alla ricerca di un luogo che lo accompagni senza farlo soffrire oltre.
La sua volontà sarebbe quella di terminare i suoi giorni in una clinica svizzera, ci lavorava da tempo, con quella costanza e dedizione che ha sempre messo in tutte le cose. Ha ottenuto la famosa “luce verde” da un’associazione che si occupa di assistere i malati terminali che intendono compiere questa scelta, predisposto tutta la documentazione e intorno ad aprile, quando ancora speravamo in una guarigione, mi ha chiesto di fargli da testimone (è obbligatorio averne uno), così ho posto anch’io la mia firma in calce a quei fogli. Per lo stesso motivo, circa due mesi dopo mi sono ritrovato a parlare al telefono con un gentile signore svizzero-italiano, per concordare i dettagli tecnico-burocratici della morte di mio padre: come si svolge esattamente la procedura, qual è il costo complessivo, cosa rischia chi accompagna il paziente oltre confine eccetera. Poi, a causa dell’improvviso aggravarsi della sua malattia e della mia mancata determinazione, quel progetto svanisce. Perciò eccoci qui, a fare il possibile per esaudire comunque le sue (e nostre) volontà.
La ricerca del luogo adatto è più difficile del previsto perché le strutture sono poche, i posti scarseggiano e il tempo stringe. Perciò, anche se di controvoglia, decidiamo di rivolgerci a un hospice della provincia pordenonese molto rinomato, ma che avevamo deciso di non considerare per via del suo orientamento cattolico e di certe conseguenti posizioni sul fine vita che non ritenevamo in linea con il pensiero di nostro padre. Tuttavia decidiamo di provarci, prendiamo un appuntamento e ci rechiamo in sede per un colloquio con la responsabile della struttura, la signora G.
Nel momento stesso in cui varco l’ingresso della palazzina immersa nel verde della pedemontana, capisco di aver commesso un gigantesco errore. La sala d’aspetto è buia, avvolta da un silenzio insalubre, appena sporcato in sottofondo da una melodia tenue e opprimente; alle pareti crocifissi e immagini religiose, come le pubblicazioni distribuite sui tavolini accanto ai divanetti beige.
La signora G. — una donna sulla sessantina con in faccia l’espressione di chi ha consacrato la propria vita al bene — ci accoglie nel suo ufficio già occupato da una giovanissima infermiera che, ci informa la donna, sta effettuando uno stage nella struttura e che, se non ci dispiace, assisterà al colloquio per capire come funziona la procedura. Non abbiamo nulla in contrario, ma tutto — le mani perennemente giunte della donna, l’imbarazzo della giovane infermiera, la luce smorta dell’ufficio — mi fa sentire sempre più a disagio. Tanto che decido di accomodarmi non su una delle due sedie predisposte per noi, di fronte alla scrivania a cui siedono la responsabile e l’infermiera, ma nel divanetto defilato sulla sinistra, accanto alla porta, pronto a defilarmi a mia volta se le cose si dovessero mettere come immagino. E decido anche di lasciar parlare mia sorella, perché ci sono situazioni in cui ho paura di me stesso e col tempo ho imparato a riconoscerle.
Il colloquio inizia male, prosegue malissimo e finisce peggio. La responsabile, con grande tatto e usando parole soppesate, ci fa capire che la struttura preferisce accogliere chi si riconosce nei suoi valori e nella sua fede, e tra me e me penso che ha tutto il diritto di farlo e che a sbagliare, a illudermi che potesse essere il contrario, sono stato io. Dopo aver ascoltato le parole della signora G. per cinque buoni minuti sarei già pronto a togliere il disturbo, ma allo stesso tempo c’è qualcosa che mi trattiene sul quel divano e dopo un po’ capisco di cosa si tratta: è la giovane infermiera che sta prendendo appunti senza mai alzare lo sguardo dalla pagina del suo quaderno. Mentre la osservo, le parole della responsabile diventano un ronzio indistinto e aiutano i miei pensieri a focalizzarsi: mi chiedo quali circostanze della vita hanno portato la giovane donna in questo luogo, che effetto le fanno le parole della responsabile e se sia o meno d’accordo con ciò che sta ascoltando.
Poi accade qualcosa che non ho previsto e che mi coglie impreparato: torno a sintonizzarmi sulla melliflua voce della signora G. perché qualcosa ha richiamato la mia attenzione, qualcosa di improvviso e doloroso come certi sassolini acuminati sopra i quali camminiamo scalzi quando, in giornate calde come quella di oggi, andiamo a fare il bagno sul Tagliamento. La responsabile ha appena detto a mia sorella che nella sua struttura non c’è spazio per l’egoismo di un Peppino Englaro, «ha capito, no?, il papà della Eluana». Guardo il profilo di mia sorella, il suo volto contrarsi nella tipica espressione (dispiaciuta, mortificata) che assume quando qualcosa la riempie di rabbia, e mentre si volta verso sinistra e incrociamo i nostri sguardi, chiedo alla responsabile di ripetere quello che ha appena detto perché, dico, mi sembra di non aver capito bene. La donna esaudisce la mia richiesta, questa volta ho capito bene e di conseguenza succedono cose che non ha nemmeno tanto senso rivangare qui. Fatto sta che il colloquio finisce e noi possiamo tornare da nostro padre.
A distanza di anni, il ricordo di quell’incontro è ancora capace di guastarmi la giornata. Tuttavia, da quei venti minuti trascorsi in compagnia della signora G. ho ricavato un’importante lezione di vita: che dei sempre buoni, a volte, è meglio diffidare.