Quando abbiamo smesso di capire il mondo
Piccolo omaggio a una delle letture più belle della mia estate.
Albert Einstein: «Dio non gioca a dadi con l’universo».
Niel Bohr: «Non spetta a noi dire a Dio come manovrare il mondo».
Blu di Prussia
Tra le poche cose che Fritz Haber aveva con sé al momento della morte, c’era una lettera scritta alla moglie. Nella lettera, Haber confessa un senso di colpa insopportabile, non per il ruolo che, direttamente o indirettamente, aveva giocato nella morte di tanti esseri umani, ma perché il suo metodo per estrarre l’azoto dall’aria aveva talmente alterato l’equilibrio del pianeta che temeva che il futuro del mondo non sarebbe appartenuto all’essere umano, ma alle piante. Sarebbe bastato che la popolazione mondiale fosse diminuita per un paio di decenni a un livello premoderno, e allora le piante, nutrite all’eccesso dall’umanità, sarebbero state libere di crescere a oltranza, proliferare ed espandersi sulla superficie della Terra fino a ricoprirla interamente, soffocando qualsiasi forma di vita sotto una terribile cappa verde.
La singolarità di Schwarzschild
Come molte persone sensibili, con l’avvicinarsi della prima guerra mondiale Schwarzschild fu pervaso dalla sensazione di un disastro imminente. Nel suo caso, si manifestò con una paura specifica: che la fisica non fosse in grado di spiegare i movimenti delle stelle e di trovare un ordine nell’universo. «Esiste almeno una cosa stabile su cui fonda l’universo o non c’è nulla a cui aggrapparsi in questa catena di movimenti senza sosta nella quale tutto è intrappolato? Rendetevi conto fino a che punto siamo caduti nell’incertezza, se l’immaginazione umana non riesce a trovare un solo luogo in cui gettare l’ancora e non c’è pietra al mondo che possa considerarsi immobile!».
Il cuore del cuore
Tra il 1983 e il 1986 scrisse Récoltes et Semailles. Réflexions et témoignage sur un passé de mathématicien, un’opera stranissima che nessuno in Francia ebbe il coraggio di pubblicare. Migliaia di pagine, stracolme di ciò che un collega definì «fantasmagorica matematica», nelle quali Grothendieck s’immerge nella propria psiche nel tentativo di afferrare il tutto, mettendo a nudo un intelletto smisurato e terrificante, in precario equilibrio tra illuminazione e paranoia. […] «Un punto di vista è limitato di per sé. Ci dà una visione a senso unico del paesaggio. Solo quando si sommano più sguardi complementari sulla stessa realtà si ha pieno accesso al sapere delle cose. Quanto più è complesso ciò che vogliamo comprendere, tanto più sarà importante disporre di diverse paia d’occhi, in modo che i fasci di luce convergano e possiamo vedere l’uno attraverso la molteplicità. È questa la natura di una visione autentica: mettere i punti di vista già conosciuti e mostrarne altri finora ignoti, insegnandoci che, di fatto, sono tutti parte dello stesso tutto.»
La notte di Helgoland
Heisenberg aveva modellato un sistema quantistico solo sulla base di ciò che si poteva misurare direttamente. Aveva sostituito i numeri alle metafore e scoperto le regole che governavano ciò che accadeva all’interno degli atomi. Le sue matrici gli consentivano di descrivere dove sarebbe stato un elettrone in un determinato momento e come avrebbe interagito con le altre particelle. Aveva replicato nel mondo subatomico quel che Newton aveva fatto con il sistema solare, affidandosi solo alla matematica pura, senza ricorrere a nessuna immagine. Anche se non capiva come ci fosse riuscito i risultati erano lì, scritti di suo pugno: se si fossero dimostrati corretti, la scienza avrebbe potuto non solo comprendere, ma iniziare a manipolare la realtà nelle sue basi primarie.
Le onde del principe
«Per più di un secolo abbiamo suddiviso i fenomeni del mondo in due campi: da una parte gli atomi e le particelle di materia solida, dall’altra le onde incorporee della luce, che si propagano nel mare dell’etere luminifero. Ma questi due sistemi non possono più rimanere separati: dobbiamo integrarli in una teoria unica che spieghi i loro numerosi scambi. Il primo passo lo ha fatto il nostro collega Albert Einstein: già vent’anni fa ipotizzò che la luce non fosse solo un’onda, ma contenesse particelle di energia; questi fotoni, che non sono altro che energia concentrata, si muovono attraverso le onde luminose. Molti hanno dubitato della veridicità di questa idea; altri hanno voluto chiudere gli occhi davanti al nuovo cammino che essa ci mostra. Perché non dobbiamo ingannarci: si tratta di una vera rivoluzione. Stiamo parlando dell’oggetto più prezioso della fisica, la luce, la luce che ci permette di vedere non solo le forme di questo mondo, ma anche le stelle che adornano i bracci a spirale della galassia e il cuore nascosto delle cose. Ma questo oggetto non è singolo: è doppio. La luce esiste in due modi diversi e, pertanto, trascende le categorie con le quali abbiamo cercato di classificare la miriade di forme in cui si manifesta la natura. In quanto onda e particella, abita due sistemi distinti, e assume identità opposte come le facce di Giano bifronte.
Perle nelle orecchie
Schrödinger odiava i festeggiamenti, e la prima cosa che fece quando la signorina Herwig entrò nella sua stanza per la lezione fu lamentarsi del fatto che il baccano infernale di quel carnevale di imbecilli non l’avrebbe lasciato dormire per tutta la notte. Sotto lo sguardo attonito del fisico, lei si tolse gli orecchini e separò con un morso le perle dai gancetti; le strofinò sull’orlo del vestito, si piegò su di lui e gliele infilò nelle orecchie. Gli spiegò che lo faceva ogni volta che soffriva di emicrania e insistette perché le tenesse, per ringraziarlo del tempo che le aveva dedicato. Erwin le chiese se quell’anno avrebbe partecipato alla festa, immaginandosela nuda e in maschera, ma sapeva che non ci andava mai. Lei confessò che odiava il natale; era uno dei periodi in cui nell’istituto morivano più persone, e né la sbornia della festa né la frenesia del ballo potevano farle dimenticare tutti quei morti. Schrödinger stava per rispondere, quando lei si lasciò cadere sul letto come se le avessero sparato in mezzo al petto. «Sa qual è la prima cosa che farò quando andrò all’università?» gli chiese con un sorriso che le illuminava il volto. «Mi ubriacherò e andrò a letto con l’uomo più brutto che incontrerò». «Perché con il più brutto?» domandò Schrödinger, togliendosi le perle dalle orecchie. «Perché voglio che la prima volta sia solo per me» gli disse, girando il collo per guardarlo negli occhi.
Il regno dell’incertezza
Quando Bohr tornò dalle vacanze, Heisenberg gli disse che c’era un limite assoluto a ciò che si poteva sapere di questo mondo. […] In termini filosofici, gli disse prendendolo sottobraccio, era la fine del determinismo. L’indeterminazione di Heisenberg mandava in frantumi la speranza di coloro che avevano creduto nell’universo a orologeria promesso dalla fisica di Newton. Secondo i deterministi, per poter conoscere il passato più remoto e predire il futuro più lontano era sufficiente scoprire le leggi che governavano la materia. Se tutto ciò che accadeva era la conseguenza di uno stato precedente, bastava guardare al presente e mettere in marcia le equazioni per giungere a una conoscenza simile a quella divina. Una visione che diventava una chimera alla luce della scoperta di Heisenberg: a essere al di là della nostra comprensione non era il futuro. E nemmeno il passato. Era il presente. Neppure lo stato di una misera particella poteva essere afferrato in pieno. Si sarebbero potuti scandagliare in lungo e in largo i fondamenti, ma qualcosa di confuso, indeterminato e incerto sarebbe rimasto sempre, come se la realtà ci lasciasse vedere il mondo chiaramente solo con un occhio per volta, e mai con tutti e due.
L’interpretazione di Copenaghen
Durante il pomeriggio Heisenberg e Bohr presentarono la loro versione della meccanica quantistica, che diverrà nota come l’«interpretazione di Copenaghen».
La realtà, dissero ai presenti, non esiste come qualcosa che prescinde dall’atto dell’osservazione. Un elettrone non si misura in nessun luogo fisso finché non lo si misura: appare soltanto in quell’istante. Prima della misurazione non possiede alcun attributo; prima dell’osservazione non lo si può nemmeno pensare. Esiste in modo determinato solo quando viene rilevato da un determinato strumento. Tra una misurazione e l’altra non ha alcun senso chiedersi come si muove, cos’è o dove si trova. Come la luna per il buddhismo, una particella non esiste: è l’atto della misurazione a trasformarla in un oggetto reale.
Il giardiniere notturno
Possiamo scindere gli atomi, ammirare la prima luce e predire la fine dell’universo con un pugno di equazioni, scarabocchi e simboli arcani che le persone normali, che pure controllano ogni minimo dettaglio della propria vita, non comprendono. Ma non si tratta solo della gente comune: nemmeno gli scienziati capiscono più il mondo. Prenda la meccanica quantistica, per esempio, la gemma sulla corona della nostra specie, la teoria fisica più precisa, più bella e di più vasta portata che sia mai stata concepita. Sta alla base di Internet, dei telefoni cellulari che dominano la nostra vita, e offre la promessa di un potere digitale paragonabile solo all’intelligenza artificiale. Ha trasformato il nostro mondo fino a renderlo irriconoscibile. Sappiamo come usarla, funziona per una sorta di miracolo, e tuttavia su questo pianeta non c’è una sola anima, viva o morta, che la capisca veramente. La mente non è in grado di districare i suoi paradossi e le sue contraddizioni. Sembra che questa teoria sia caduta sulla Terra come un monolito proveniente dallo spazio, e noi le giriamo attorno a quattro zampe tipo scimmie, giocandoci, lanciandole contro sassi e bastoni, ma senza un’autentica cognizione.