13 maggio 1990 — Dinamo Zagabria-Stella Rossa di Belgrado
Trent’anni fa, la classica del campionato di calcio jugoslavo Dinamo Zagabria-Stella Rossa di Belgrado, in programma allo stadio Maksimir della capitale croata, degenera in violentissimi scontri tra le due tifoserie. È solo un antipasto, diranno in molti, e a ragione: poco più di un anno dopo, le due curve si scontreranno a colpi di kalashnikov e mortai nel corso del più sanguinoso conflitto bellico combattuto sul suolo europeo dopo la seconda guerra mondiale.
Dal punto di vista cristiano fu un errore, ma lui mi aveva colpito per primo. Gesù dice di porgere l’altra guancia se qualcuno ti colpisce. Ma non ha detto cosa fare se qualcuno ti colpisce tutte e due le guance.
Ad avventurarsi con tanta audacia nell’ermeneutica biblica è Zvonimir Boban, stella del calcio europeo degli anni Novanta ed esponente di punta di quella generazione di talenti balcanici — dai croati Davor Šuker e Robert Prosinečki al montenegrino Predrag Mijatović — che nel 1987, in Cile, aveva vinto la coppa del mondo Under 20.
Il 13 maggio 1990, «uno dei giorni più importanti della mia vita», Boban ha ventun anni, veste la maglia numero 10 della Dinamo, di cui è anche capitano, e quando entra in campo insieme ai suoi compagni nel tentativo di placare gli animi, ancora non sa che nel volgere di pochi secondi sarebbe diventato un eroe del suo popolo.
Tutto per via di un calcio volante che Zvonimir sferra a uno dei poliziotti del regime intenti a picchiare i tifosi della Dinamo Zagabria, i Bad Blue Boys, che quel pomeriggio hanno sfondato i cancelli della curva nord e hanno invaso il campo da gioco per dirigersi verso la curva ospite occupata dai Delije della Crvena zvezda, guidati da Željko Arkan Ražnatović.
Nel momento in cui Boban colpisce l’uomo in divisa gli scontri tra le due tifoserie proseguono già da diverse ore. A innescarli è stata la furia dei serbi, giunti in tremila a Zagabria con il proposito di vendicare l’onta subita sette giorni prima, quando le elezioni politiche indette in Croazia avevano sancito la vittoria dell’Unione democratica croata (Hdz) di Franjo Tuđman. Fondato il 17 giugno dell’anno precedente, l’Hdz è un partito di destra, filo-ustascia, dichiaratamente nazionalista e intenzionato ad accelerare il processo politico che il 25 giugno 1991 avrebbe portato il paese (insieme alla Slovenia) a proclamare l’indipendenza.
Come emblema della nuova formazione politica Tuđman — «l’uomo dal sorriso di pescecane», come lo chiamano i serbi — ha recuperato la šahovnica, la scacchiera rossa e bianca che i Bad Blue Boys espongono in curva dopo averla cucita al centro della bandiera jugoslava, lì dove un tempo campeggiava la stella rossa bordata d’oro posta da Tito, morto da dieci anni e dieci giorni esatti, alla nascita della Repubblica federale socialista.
Per i serbi, quella scacchiera è il drappo rosso che il torero sventola davanti all’animale per provocarne la furia, perché rimanda alle vessazioni subite dal loro popolo durante l’occupazione nazista dei Balcani per mano degli ustascia di Ante Pavelić, fondatore dello Stato croato indipendente. A quei tempi, il piano del Poglavnik, la “Guida”, per sbarazzarsi dei serbi era molto semplice: un terzo avrebbe dovuto riconvertirsi al cattolicesimo, un terzo avrebbe dovuto abbandonare il paese e un terzo avrebbe dovuto morire. Solo l’ultimo di questi propositi, però, era stato perseguito con successo, come ricorda anche Curzio Malaparte nel suo Kaputt, là dove riporta un’intervista (vera o inventata?) a Pavelić:
Mentre si parlava, io osservavo un paniere di vimini posto sulla scrivania, alla sinistra del Poglavnik. Il coperchio era sollevato, si vedeva il paniere di frutti di mare, così mi parvero, e avrei detto di ostriche, ma tolte dal guscio…
«Sono ostriche della Dalmazia?», domandai al Poglavnik.
Ante Pavelić sollevò il coperchio del paniere e mostrando quei frutti di mare, quella massa viscida e gelatinosa di ostriche, disse sorridendo, con quel suo sorriso buono e stanco: «È un regalo dei miei amici ustascia: sono venti chili di occhi umani».
I tremila Delije che stanno distruggendo lo stadio Maksimir di Zagabria hanno quegli occhi negli occhi. E temono che l’avvento al potere di Tuđman possa scatenare una nuova ondata di violenze e discriminazioni contro la minoranza serba in Croazia, che costituisce l’11,6 per cento della popolazione, radunato per la grande maggioranza lungo il confine con la Bosnia-Erzegovina, in quella regione chiamata Krajina che un tempo era la frontiera militare asburgica.
Nonostante la tensione fosse salita già fuori dallo stadio, è sugli spalti che i Delije scatenano la loro rabbia vandalizzando tutto quello che capita a portata di mano — cartelloni pubblicitari, inferriate e soprattutto seggiolini, divelti dai gradoni di cemento e lanciati contro i nemici, che reagiscono con altrettanta violenza, dando vita a un sabba di brutalità repressa ripreso in diretta dalle telecamere.
Il racconto delle immagini è paradossale: i pestaggi squadristici — nei quali c’è già traccia di tutta l’efferatezza che da lì a pochi mesi sarebbe dilagata sui fronti delle guerre balcaniche — si alternano a scene di gioia goliardica, con tifosi in t-shirt che danzano, cantano e ridono nella luce bassa del tramonto, quasi divertiti da quanto sta accadendo a pochi metri di distanza. Quando un serbo cade nelle mani dei croati o un croato in quelle dei serbi, lo schema si ripete identico: il malcapitato si rannicchia tra i gradoni, coprendosi la testa con le braccia, ma la sua sagoma scompare nel giro di pochi attimi, circondata da un nugolo di nemici che lo bersagliano di calci, pugni e colpi di seggiolini, fino a quando la reazioni dei sodali della vittima costringe gli aggressori ad abbandonare la preda e a battere in ritirata. Nel mentre, però, capita sempre che almeno uno dei carnefici a sua volta cada nelle mani del gruppo rivale trasformandosi in vittima. Nel pieno delle guerre balcaniche, accadrà la stessa cosa con le famigerate pulizie etniche: il vincitore di questa o quella battaglia non si accontenterà di entrare con le sue truppe nel territorio conquistato, ma provvederà a bonificarlo dalla presenza dell’etnia nemica. E quando da vincitore si trasformerà in sconfitto subirà la stessa sorte. Occhi per occhio.
Gli scontri per il momento sono confinati sulle tribune, sotto lo sguardo inerte dei giocatori delle due squadre, scesi in campo intorno alle 18 per il riscaldamento, e della polizia di regime a maggioranza, che nulla fa per placare la furia dei Denjii, mentre sembra prestare più attenzione alla reazione dei Bad Blue Boys, intenzionati a invadere il terreno di gioco per raggiungere la curva dei rivali e mettere fine allo scempio in corso. Quando questo accade, quando i tifosi croati rompono il cordone di contenimento predisposto dalla polizia in assetto antisommossa, il prato del Maksimir si trasforma in una gigantesca arena senza più alcuna forma di controllo. È a questo punto che la vita di Zvonimir Boban cambia.
Dopo aver assistito al pestaggio di un tifoso della Dinamo da parte di un poliziotto, Boban reagisce: «Insultai la polizia e uno di loro mi colpì». La dinamica appare molto chiara grazie soprattutto a uno dei tanti video di quella giornata disponibili su YouTube, girato da un operatore che ha il sangue freddo di entrare in campo per riprendere la battaglia dal suo cuore.
Boban viene inquadrato intorno al minuto 6’15’’: lo vediamo camminare circospetto, anche lui, come tanti altri, sta cercando di capire cosa succede, quando all’improvviso la sua attenzione sembra catturata da qualcosa, qualcosa che capiamo quando la telecamera si gira verso due poliziotti che stanno malmenando un tifoso della Dinamo. Boban si avvicina di corsa, inveisce contro le forze dell’ordine e viene colpito con una manganellata, sulla coscia sembra, a cui reagisce con una specie di calcio per poi allontanarsi verso l’esterno del campo. Poi, però, Zvonimir si ferma, come se ci avesse ripensato, torna sui propri passi e si avventa verso un uomo in divisa — non è ben chiaro se si tratti dello stesso che lo ha picchiato pochi secondi prima —, colpendolo alla mascella con un calcio che lo mette a terra. Dalla curva dei BBB sembra alzarsi un boato di gioia, mentre un paio di tifosi della Dinamo che in quel momento si trovano a pochi metri dal loro campione subito lo circondano e lo allontanano dalla scena del crimine, per proteggerlo da eventuali rappresaglie della milicija. È così che il popolo fa con i suoi eroi, e in quell’istante ne è appena nato uno.
Il calcio di Boban, forse sarebbe più corretto definirlo una ginocchiata, non è esteticamente bello come quello che il 25 gennaio 1995 un altro fuoriclasse del pallone, le roy Éric Cantona, avrebbe sferrato a Matthew Simmons, giovane tifoso del Crystal Palace e militante del Fronte nazionale britannico, colpevole di avere insultato il campione dello United — espulso per una gomitata inflitta pochi secondi prima al suo marcatore — al grido «Vattene nel tuo paese!», accompagnato da un saluto fascista.
Il calcio di Boban è più goffo, meno elegante. Ciò che accomuna le due reazioni, invece, è il significato liberatorio che devono aver avuto per i rispettivi autori: Boban reagisce contro quello che ai suoi occhi è atto di prepotenza con cui il più forte sottomette il più debole; per Cantona quel colpo di kung-fu è l’unico modo con cui, a volte, va messa a tacere la stupidità fascista.
Non c’è dubbio alcuno, tuttavia, che il calcio di Boban sia più rilevante sul piano storico, perché cristallizza una frattura tra due popoli, un tempo fraterni, non più rimarginabile. E poco importa se, come si scoprirà diversi anni dopo, il poliziotto a cui il capitano della Dinamo fratturò la mascella non era un odiato serbo, bensì un bosniaco-musulmano di nome Refik Ahmetović, originario della città di Tuzla.
Poco importa perché nel contesto balcanico degli anni Novanta tutti sono nemici di tutti.
Nei primi giorni di luglio del 1991, l’esercito serbo guidato dal generale Blagoje Adžić — agli ordini di Slobodan Milošević, presidente della neonata Repubblica socialista di Serbia — invade ampie porzioni del territorio croato, tra cui le città dalmate di Zara, Sebenico e Ragusa, la capitale della Slavonia Osijek e Vukovar, “la Stalingrado croata”, che a partire dal 25 agosto viene cinta in un assedio protrattosi per tre mesi, al termine del quale, oramai rasa al suolo dai mortai, viene occupata dalle truppe di Adžić, che inaugurano la pratica della pulizia etnica.
Nell’aprile del 1992, terminata da tre mesi la guerra contro i serbi con il riconoscimento dell’indipendenza della Croazia e la costituzione della Repubblica serba della Kranjia, Franjo Tuđman indirizza le proprie truppe contro quello stesso esercito bosniaco-musulmano un tempo suo alleato, dando inizio a un altro barbaro capitolo delle guerre dell’ex Jugoslavia, che avrà il suo apice di orrore nell’assedio alla città di Monstar.
Tre anni più tardi infine, tra il maggio e il settembre del 1995, dopo aver riconquistato buona parte dei territori della Krajina e della Dalmazia persi nel primo conflitto contro i serbi, i croati rinnovano il macabro schema di violenza alternata già sperimentato sugli spalti del Maksimir, bonificando dalla presenza serba le città tornate sotto la šahovnica.
L’emittente americana CNN ha inserito Dinamo Zagabria-Stella Rossa di Belgrado tra le cinque partite di calcio che hanno cambiato il mondo. Forse è un’esagerazione, forse nessun evento sportivo, al contrario di quanto sostiene una stucchevole retorica piuttosto in voga, è in grado di farlo. Di certo, quella non-partita cambiò la vita a un’intera generazione di giovani che, sopravvissuti al fronte, quattro anni dopo quel 13 maggio 1990 decisero di ricordarla erigendo all’esterno del Maksimir un memoriale raffigurante un soldato con un esercito alle sue spalle e la scritta: «A tutti i tifosi della Dinamo, la cui guerra cominciò il 13 maggio 1990 e che finirono per dare la loro vita per la Croazia».