2 aprile 2000 — In morte di don Masino
Vent’anni fa moriva Tommaso Buscetta, settantadue anni, conosciuto anche come don Masino, il boss dei due mondi, top narcotic man; o come il più importante pentito di mafia, l’uomo che ha rivelato a Giovanni Falcone la struttura e i segreti di Cosa Nostra, spingendosi ben al di là dell’ambito siciliano.
Grazie alle rivelazioni di Buscetta la magistratura palermitana, guidata da Antonino Capponnetto, istruisce il primo maxiprocesso alla mafia, durato complessivamente quasi sei anni, dal 10 febbraio 1986, giorno della prima udienza, al 30 gennaio 1992, giorno della sentenza della Cassazione.
Il primo grado, svoltosi all’interno della nuovissima aula bunker di Palermo costruita per l’occasione in soli venti mesi e costata 18 milioni di dollari, vede sedere sul banco degli imputati 474 mafiosi di ogni ordine e grado, rappresentati da circa duecento difensori, e si conclude il 16 dicembre 1987 con la condanna a 19 ergastoli e 2665 anni di reclusione complessivi.
La prima pietra di quel processo era stata posta il 23 ottobre 1983, quando quaranta poliziotti arrestavano Buscetta nella sua casa a San Paolo, in Brasile. Si trattava della quinta e ultima volta che don Masino veniva assicurato alla giustizia.
Nove mesi più tardi Buscetta veniva estradato dal Brasile in Italia, dove atterrava all’aeroporto di Fiumicino il 15 luglio 1984 a bordo del volo Alitalia 747 decollato da Rio de Janeiro. Quel giorno il boss era sceso dalla scaletta dell’aereo con entrambe le mani nascoste da una strana coperta — qualcuno avrebbe parlato di un poncho — a righe orizzontali gialle, nere e rosse, visibilmente provato, forse per il lungo viaggio, forse per i postumi di un tentato suicidio a base di stricnica avvenuto una settimana prima.
Tre giorni dopo, il 18 luglio, Buscetta informava Giovanni Falcone della sua intenzione di collaborare con la giustizia. «Non sono un infame. Non sono un pentito» disse don Masino al giudice in occasione di quel loro primo incontro. «Sono stato mafioso e mi sono macchiato di delitti per i quali sono pronto a pagare il mio debito con la giustizia.»
Iniziava così una confessione fiume protrattasi ininterrottamente per 45 giorni, durante la quale, grazie anche all’apporto di un altro pentito di spessore, Salvatore Contorno, stratega militare di Cosa Nostra, venivano ricostruiti qualcosa come mille delitti di mafia e, soprattutto, veniva per la prima volta rivelata nel dettaglio la struttura dell’organizzazione criminale.
Un anno e mezzo dopo, Tommaso Buscetta avrebbe fatto il suo ingresso nell’aula bunker di Palermo vestito con un doppiopetto blu e indossando un paio di vistosi occhiali scuri, sommerso dalle minacce e dagli insulti provenienti dalle gabbie degli imputati.
Di quel vero e proprio kolossal giudiziario — il più grande processo penale mai celebrato al mondo, sostiene Wikipedia — è possibile vedere un’illuminante sintesi a questo indirizzo.
Di seguito, invece, uno dei suoi tanti momenti drammatici: il confronto, l’unico sostenuto in aula dal pentito, tra Tommaso Buscetta, protetto da una gabbia antiproiettile, e il boss Pippo Calò.
All’incredibile vita di Buscetta l’anno scorso Marco Bellocchio ha dedicato un bel film, Il traditore, vincitore del Nastro d’Argento 2019 come Miglior film, regia, sceneggiatura, attore protagonista (Pierfrancesco Favino), attore non protagonista, montaggio e colonna sonora.
La pellicola vanta anche 18 candidature alla prossima edizione del David di Donatello (in programma il prossimo 8 maggio) e al Premio César nella categoria Miglior film.
Non sono riuscito a trovare, invece, una prova documentale di un aneddoto molto divertente che viene spesso citato da fonti anche autorevoli.
Il 30 ottobre 1997 Enzo Biagi, che di Buscetta è stato il biografo (Il boss è solo. Buscetta: la vera storia di un vero padrino, Mondadori 1986), durante un’intervista televisiva a Gianni Agnelli rivelava all’avvocato: «Ho incontrato Buscetta, mi ha detto di dirle che è un tifoso della Juventus». Al che Agnelli rispondeva: «Se avrà occasione di rivederlo, gli dica che è l’unica cosa di cui non dovrà pentirsi».