Di vertigini e dinosauri

Ieri mattina, sul presto, ho interrotto per qualche minuto l’isolamento domestico per recarmi alla Coop del mio paese e comprare un etto e mezzo di prosciutto cotto, quattro bottiglie di Ichnusa non filtrata, una cassa da dodici bottiglie di acqua frizzante in vetro e La Lettura. Poiché l’intento di quella innocua evasione era procurarmi gli ingredienti per preparare una pizza, mai e poi mai avrei immaginato che avrebbe invece contribuito a riportare alla memoria una vertigine vissuta qualche anno fa e di cui mi ero completamente dimenticato.


 


Rientrato a casa, sfogliando l’inserto del Corriere della Sera ho scoperto che è da poco uscito nelle librerie Topeka School (Sellerio, traduzione di Martina Testa), l’ultimo romanzo di Ben Lerner (qui una bella recensione di Fabrizio Spinelli); così mi è venuta voglia di rileggere alcuni passaggi del suo libro precedente, Nel mondo a venire, che a distanza di un lustro continua a restituirmi il ricordo di un periodo molto sereno della mia vita, alla vigilia (inconsapevole) di mesi che, al contrario, sarebbero stati duri e dolorosi. A quel bellissimo romanzo, inoltre, è legato un episodio strano, quasi surreale. Uno di quegli eccentrici accadimenti che Winfried G. Sebald chiamava, appunto, vertigini.




Era una giornata di primavera del 2015 e come ogni mattina percorrevo le strade di Roma Est a bordo della linea 105 per raggiungere la stazione Tiburtina, da dove poi mi sarei indirizzato a piedi verso il mio luogo di lavoro. Mi è sempre piaciuto leggere sugli autobus, circondato dalla gente e dai rumori del traffico, e così stavo facendo pure quel giorno, anche perché non riuscivo a staccarmi dalle pagine di quel romanzo strano, poetico ma allo stesso tempo pop, divertente e tragico, corale e intimo, narrato in prima persona dal suo protagonista, un newyorchese ebreo poco più che trentenne alle prese con una serie di sconvolgimenti privati in bilico tra il grottesco, il drammatico e il comico.
Ero arrivato poco oltre la metà del romanzo, quando il protagonista accompagna il piccolo Roberto — uno studente di terza elementare che segue nel doposcuola e con cui condivide la passione per il mondo dei dinosauri — al Museo americano di storia naturale di New York, dove un circuito che attraversa varie ali dell’edificio «permette al visitatore di seguire passo passo l’evoluzione dei vertebrati, un cladogramma con delle nicchie ai lati del camminamento che mostrano i fossili delle specie accomunate dalle stesse caratteristiche fisiche — per esempio, quattro arti con articolazioni mobili circondate da muscoli” (tetrapodi)».
È una scena molto bella, che si sviluppa per una quindicina di pagina e durante la quale il protagonista, che fin dal viaggio in metro verso il museo prova una certa ansia per la responsabilità che sente nei confronti del piccolo, esplode in un moto di rabbia verso il giovane amico quando quest’ultimo si allontana di soppiatto per fargli uno scherzo mentre lui si è chiuso in bagno per fare pipì. Mentre leggevo sentivo tutta l’ansia del protagonista arrivarmi addosso, forse perché anch’io ho sempre provato una certa agitazione le rare volte in cui mi sono trovato da solo in compagnia di un bambino.
Al di là del climax rappresentato dallo scoppio di rabbia, però, ciò che rende la scena molto bella è soprattutto la descrizione della passeggiata dei due attraverso le sale del museo, di èra in èra lungo la storia del mondo: dalla sala delle origini dei Vertebrati a quella dei Pesci senza mandibola; da quella dei Placodermi alla sala dei Dinosauri ornitischi e dei Dinosauri saurischi, dove troneggia lo scheletro del mitico Tyrannosaurus Rex.



Quella mattina avevo un appuntamento con un professore brasiliano di filosofia del diritto nel suo ufficio alla facoltà di Legge della Sapienza. Non ricordo con precisione il motivo di quell’incontro, se non sbaglio avrei dovuto occuparmi di correggere le bozze di un saggio a cui il professore stava lavorando (anche se poi non se ne sarebbe fatto più nulla). Percorsi a piedi il breve tratto di strada che separa il mio studio dall’ingresso al campus universitario che dà su via Regina Margherita, e dopo aver bevuto un caffè al bar nei pressi della segreteria, mi avviai verso legge, lungo la via che affianca il Rettorato.
Fu a quel punto che mi accorsi di una cosa strabiliante.
Il piazzale interno del campus, dove troneggia la statua della Minerva da cui prende il nome, era popolato da gigantesche riproduzioni di dinosauri (anziché “gigantesche” avrei voluto scrivere “a grandezza naturale”, ma non sono sicuro di sapere com’era la grandezza naturale di un dinosauro). Non solo: altri esemplari ricoprivano le pareti delle facoltà, tra cui quella di legge, grazie alla tecnica del Paste Up (che consiste nell’utilizzo come medium della carta, precedentemente dipinta/disegnata/decorata e poi applicata sulla superficie del palazzo tramite una colla biologica, spesso composta principalmente da acqua e farina). Non ricordo il motivo di quelle presenze: probabilmente era in corso qualche evento organizzato dall’ateneo dedicato alla preistoria. Quel che è certo è non potevo credere ai miei occhi.






Dopo aver seguito, pochi minuti prima, la passeggiata tra i dinosauri del protagonista del romanzo di Ben Lerner in compagnia del piccolo Roberto, mi ritrovavo a passeggiare anch’io — ma, a differenza loro, in maniera del tutto inattesa — tra brontosauri e tirannosauri. È in quel momento che credo di aver provato una piccola vertigine, sì, una di quelle sensazioni stranianti così ben descritta da Sebald — che dell’argomento si intendeva, visto che al tema ha dedicato uno dei suoi preziosi libri — che un individuo prova quando due dimensioni così estranee l’una all’altra per un istante si sovrappongono, superando la dicotomia del tempo (passato/presente) o del possibile (finzione/realtà).



Su Vertigini di Sebald lo scrittore inglese Tim Parks ha scritto un bel saggio, “Il cacciatore”,  contenuto in un libro tutto dedicato all’opera del grande autore tedesco, Il fantasma della memoria, curato da Lynne Sharon Schwartz, a cui mi è capitato di lavorare non più tardi di un anno fa. La vertigine di Sebald, dice Parks, «è sempre una coincidenza, o una prodigiosa ripetizione, l’affiorare più evidente del mistero che sottostà alla vita». È la vertigine

a trascinare il malinconico fuori dalla sua paralisi. È come se, disincantati al punto in cui certe follie diventano impensabili, potessimo rimetterci in moto soltanto grazie a una fascinazione per i misteri della vita, che ci vengono in qualche modo imposti dall’alto. Tra, o forse dopo, la passione e la gloria, troviamo l’incerta risorsa della curiosità, un’emozione ricorrente di meraviglia e terrore. Qualsiasi atto di memoria offrirà un’occasione per fare festa.

«Qualsiasi atto di memoria offrirà un’occasione per fare festa».
Mi piace molto questa frase, ci tornerà utile.

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