Presagi di smuta

«Nel quadro di Repin, pervaso da una luce lunare, sono ritratti undici uomini che sembrano quasi crollare in avanti nella rena, spossati sotto la calura, mentre tirano un elegante vascello, le mani gonfie di vene. Davanti ci sono i più prestanti, capaci di sforzi sovrumani; solo l’ultimo ha ceduto, si regge perché assicurato ai miserabili compagni, cane legato alla muta di cani. Appaiono tutti abbattuti, rassegnati, eppure sostenuti da una stoica volontà.
È un piano sequenza in cui c’è chi guarda dritto “in camera”, quasi a rivendicare la dignità e la forza d’animo presenti in ogni uomo, ciascuno a urlare nello sguardo sia la propria tragedia sia la condanna verso lo sfruttatore – al limite di una violenta minaccia.
Fra tutti, però, uno si distingue, al centro della fila e della grande tela: è un giovane con gli stracci di colori più vivaci, la testa ritta, il viso più luminoso rispetto a quello imbrattato e lurido degli altri. Guardando lontano con fierezza, lotta con le mani contro l’imbragatura per liberarsene e assume un portamento eroico, di chi è pronto a ribellarsi e a morire per l’umanità intera. Il tricolore russo sull’albero maestro del vascello è capovolto, a ribadire l’ingiustizia che regna nell’Impero, presagio di smuta, di tumulti. Sullo sfondo s’intravvede un battello a vapore, simbolo di speranza nel progresso industriale.
Un vero documentario su tela che sconvolse anche Dostoevskij. Ne aveva letto sui giornali, e pensava all’ennesima opera romanticoide di scarso impegno sociale. Invece, “per mia gioia tutte le mie paure si rivelarono infondate [. . .] Non uno di loro dal dipinto grida: ‘Guarda come sono sfortunato io e come tu sei in debito con il popolo’ [. . .] Ho visto i trasportatori, i veri trasportatori e niente di più [. . .] non si può fare a meno di pensare che siamo in debito, veramente in debito con il popolo”.»
Marzio G. Milan, Volga Blues. Viaggio nel cuore della Russia, Gramma Feltrinelli, p. 132

«Leggo Proudhon De la justice etc. mi piace moltissimo. Mi viene fatto spesso di riflettere al torto che ebbi di non leggerlo prima d’ora, a me pare che se un uomo non acquista il senso della rettitudine dopo aver letto questo autore, vuol dire che in sé non vi è mai stato neppur il germe di galantuomo.»
Lettera di Telemaco Signorini a Vincenzo Cabianca, 1868