12 settembre 1990 – La scomparsa di Davide Cervia (o della violazione del diritto alla verità)
Oggi, ma trent’anni fa, scompariva nel nulla Davide Cervia, trentun anni, caporeparto presso un’azienda di elettronica di Ariccia ed ex sergente della marina militare.
Poco più di un mese prima, il 2 agosto 1990, l’esercito iracheno di Saddam Hussein aveva invaso il Kuwait con centomila uomini e trecento carrarmati, sbaragliando in poche ore la resistenza dell’Emirato. A distanza di cinque mesi e mezzo, il 17 gennaio 1991, avrebbe avuto inizio l’operazione Desert Storm, la più imponente azione militare alleata dal 1945, tesa a liberare il Kuwait mediante l’uso legittimo della forza sancito dal Consiglio di sicurezza delle Nazione Unite.
Al momento della sua scomparsa Davide vive a Velletri, in provincia di Roma, insieme alla sua famiglia: la moglie Marisa Gentile e i figli Erika, sei anni, e Daniele, quattro.
Arruolatosi come volontario nella marina militare nel settembre del 1978, il sergente Cervia si era congedato sei anni dopo, in anticipo sulla scadenza naturale della ferma in vigore all’epoca. Nel frattempo, infatti, si era innamorato e aveva messo su famiglia, così la prospettiva di una vita professionale che lo obbligasse ad assentarsi da casa per lunghi periodi lo aveva convinto a rinunciare alla carriera militare.
Poco dopo il suo congedo Davide viene assunto dalla Enertecnel Sud di Ariccia, una ditta di componenti elettronici dove si reca, come ogni giorno, anche quel 12 settembre 1990.
Terminato il turno di lavoro, intorno alle 17 Davide saluta i colleghi, risale sulla sua Volkswagen Golf bianca per rientrare a casa e da quel momento di lui non si saprà più nulla. «Sarebbe dovuto arrivare verso le 17.30» racconterà in seguito la signora Cervia. «Passano le ore e non arriva, lui era precisissimo, cominciano le telefonate ai colleghi ma niente, nessun contrattempo al lavoro».
Le ricerche dei familiari proseguono tutta la notte e la mattina successiva, fino a quando Marisa, angosciata anche da una telefonata muta giunta al telefono di casa intorno alle 12.30, si reca presso la caserma dei carabinieri per denunciare la scomparsa del marito. Alla scadenza delle 24 ore dal fatto, così come vuole la legge, si aprono ufficialmente le indagini sul caso Cervia, che però partono subito con il piede sbagliato: cinque giorni dopo, Marisa scopre che la foto di Davide consegnata ai carabinieri il 13 settembre è scomparsa, e che la targa della sua auto, anch’essa comunicata il giorno della denuncia, non è mai stata inserita nei terminali della questura centrale. Saranno solo i primi di una lunga e paradossale serie di errori che scandiranno l’intero corso delle indagini, fondate fin dall’inizio su un’ipotesi investigativa per precisa. E probabilmente errata.
«ALLONTANAMENTO VOLONTARIO»
Fin dalle prime ore, infatti, i carabinieri di Velletri parlano di un «allontanamento volontario», ma la pista sembra non reggere all’evidenza dei fatti. Davide, oltre a non avere mai dato il minimo segnale di stanchezza/insofferenza/disagio verso l’ambiente familiare, non sembra nemmeno avere particolari scheletri nell’armadio né tantomeno nemici, e pure la sua condotta delle ultime settimane – fitta di impegni e progetti da lui stesso messi in calendario sul fronte sia lavorativo che privato – sembra escludere ogni sospetto di una fuga programmata.
A ripensarci però, riflette la signora Cervia, qualcosa di strano negli ultimi mesi è accaduto, piccoli episodi apparentemente insignificanti, anche banali, ma che alla luce degli eventi assumono contorni sinistri: come quella volta che Davide, siamo nei primi mesi del 1990, aveva improvvisamente deciso di chiedere il nulla osta per il porto d’armi e, una volta ottenutolo, aveva acquistato un fucile usato, motivando la scelta con il fatto di vivere in campagna, in una località isolata, e perciò con l’esigenza di difendere sé stesso e la propria famiglia da eventuali malintenzionati; oppure quello stranissimo buco nella recinzione che circonda la proprietà dei Cervia (chi lo aveva fatto? e perché?) notato un mese prima della scomparsa di Davide, proprio in corrispondenza del punto in cui era solito parcheggiare la macchina; e ancora, l’improvviso e inspiegabile incendio che a fine agosto aveva danneggiato la sua auto, causato da un corto circuito del quadro elettrico, a seguito del quale Davide si era abbandonato a una reazione sproporzionata, di rabbia mista a sconforto, sfociata in un lungo e per lui insolito pianto. «Era la prima volta che lo vedevo così turbato» ricorderà Marisa. «Esagerato, gli dicevo io, è solo una macchina, ma forse lui percepiva segnali di pericolo, visto che si era comprato qualche mese prima un fucile, mi diceva per difesa dagli animali selvatici qui intorno, ma era nervoso e preoccupato».
TECNICI ELETTRONICI/GUERRA ELETTRONICA
Con il passare delle settimane i familiari di Davide si convincono che la pista dell’allontanamento volontario non regge, anche se i carabinieri di Velletri si ostinano a perseguirla. È per questo motivo che Marisa e suo padre, Alberto Gentile, intensificano le indagini fai-da-te che in breve tempo conducono a una prima, imprevista svolta.
Grazie alla confessione di un ex commilitone del periodo in cui Davide era arruolato in marina, la famiglia Cervia viene a conoscenza di un particolare della sua vita del tutto ignoto: dal 1978 al 1980 Davide aveva frequentato, a Taranto, un corso di specializzazione in guerra elettronica, in seguito al quale aveva ottenuto la qualifica ELT/ETE/GE (tecnici elettronici/guerra elettronica) e aveva prestato servizio a bordo della fregata lanciamissili Maestrale, fiore all’occhiello (all’epoca ancora in allestimento) della flotta italiana, dotata di sistemi elettronici utilizzabili solo da personale altamente specializzato. Nello specifico, Davide vantava una profonda conoscenza del sistema di puntamento antimissilistico Teseo-Otomat, di fabbricazione italiana, particolarmente richiesto nel mercato estero perché in grado di identificare aerei nemici a migliaia di chilometri di distanza nel momento in cui accendono i motori, di individuarne l’armamento e di cominciare così un’eventuale manovra di contrasto. In quel periodo, appureranno le indagini dei mesi successivi, lo stato italiano vendeva il sistema Teseo-Otomat a una settantina di paesi esteri in Asia, Africa e Sudamerica.
Scoperto il reale profilo professionale di Davide ai tempi del suo servizio in marina, alla famiglia Cervia si apre uno scenario fino a quel momento impensabile: l’ipotesi che il proprio marito/figlio/padre possa essere stato rapito alla vigilia della prima guerra del Golfo, il primo conflitto elettronico della storia, proprio a causa delle sue competenze e conoscenze altamente specializzate, così difficili da reperire sul mercato alla vigilia di un conflitto. Davide Cervia è dunque un connazionale sequestrato perché indispensabile corredo di una partita d’armi venduta dall’Italia a un paese straniero?
Alla luce di questa ipotesi, il 21 settembre 1990 Marisa Cervia si reca al ministero della marina e ottiene un colloquio con un comandante a suo tempo imbarcato sulla Maestrale, da cui però ricava informazioni vaghe, generiche, tendenti a sminuire il profilo professionale del marito, descritto come un normale tecnico manutentore, senza alcuna qualifica o specializzazione, tantomeno sul fronte della guerra elettronica. Quel colloquio, in verità, un risultato lo ottiene, anche se non proprio sperato: da quel giorno l’attenzione al caso Cervia dedicata dal Sios, il Servizio informazioni operative e situazione della Marina militare, si fa molto pressante, grazie soprattutto alle visite sempre più frequenti che i suoi uomini faranno alla stazione di comando dei carabinieri di Velletri. A intensificarsi, di pari passo, sono anche le telefonate anonime che raggiungono la famiglia Cervia, non più sempre mute, però: in alcune, una voce afferma che Davide è vivo e in buona compagnia, in altre si sentono messaggi registrati in una lingua straniera dalle forti connotazioni arabe, mentre altre ancora sì, rimangono silenziose.
TESTIMONI OCULARI
Più gli indizi si accumulano, più l’ipotesi che Davide non si sia allontanato da casa volontariamente sembra rafforzarsi. I carabinieri di Velletri, però, continuano a pensarla diversamente, e a distoglierli da quella che ormai sembra una fissazione non bastano neppure due testimonianze oculari, depositate tra il dicembre del 1990 e il marzo del 1991.
Nella prima, Mario Cavagnero, vicino di casa dei Cervia, in data 2 dicembre 1990 dichiara di aver visto alcuni uomini caricare a forza Davide all’interno di un’auto “verdina”. «Ho visto che lo hanno picchiato e subito dopo gli hanno messo un fazzoletto sulla bocca, come per narcotizzarlo. Davide urlava, faceva resistenza, tentava di difendersi. Quando hanno girato qui lui ha sberciato [urlato]. E mi ha chiamato due volte: “Mario! Mario!”. Si vedeva che era uno che proprio aveva bisogno… di aiuto, poraccio!».
Presa nella dovuta considerazione, quella di Cavagnero è una di quelle testimonianze che avrebbero la forza di cambiare radicalmente il corso di un’indagine. Per la prima volta qualcuno dice di avere visto qualcun altro rapire Davide, a pochi metri da casa e nello stesso lasso temporale in cui di lui si sono perse le tracce. Certo, una cosa non torna: perché Cavagnero, oggi deceduto, ha deciso di parlare a distanza di ottanta giorni dal fatto? Che cosa lo ha trattenuto? Perché non ha parlato prima? Per paura, risponde l’interessato, perché in cuor suo sperava che qualcuno lo convocasse in questura, per sentirsi così costretto a vuotare il sacco e a liberarsi dal timore di subire qualche forma di ritorsione. Ci sta, potrebbe essere, ma non per gli uomini dell’Arma, che giudicano inattendibile la testimonianza di Cavagnero, definito una personalità instabile, dissociata, inaffidabile. Senza contare i difetti alla vista dell’uomo, che non consentirebbero di ritenere attendibile la sua testimonianza.
Nulla di fatto, quindi. Si torna al punto di partenza, da cui non ci si smuove neppure dopo aver sentito quello che ha da dire il secondo testimone oculare del presunto rapimento di Davide Cervia. A parlare questa volta è Alfio Greco, autista dell’Acotral (oggi Cotral) in servizio nella tratta Torvaianica-Velletri, che il 12 settembre 1990 transitava con il suo mezzo proprio all’incrocio tra via Appia e via Colle dei Marmi, l’indirizzo di casa Cervia, e racconta di essere stato costretto a una brusca frenata a causa di due automobili, una Golf bianca e una Golf verde scuro, che non avevano rispettato lo stop e gli avevano tagliato la strada a forte velocità: la prima auto, la Golf bianca, sarebbe stata guidata da una persona dai tratti somatici diversi da quelli di Davide, mentre la seconda sarebbe stata affollata di persone con le spalle rivolte ai finestrini, nell’atto di coprire qualcosa o qualcuno all’interno dell’abitacolo. Le due macchine, superato l’incrocio, prima di scomparire nel nulla si sarebbero immesse a forte velocità sull’Appia Nuova, in direzione Roma. Nemmeno di loro si saprà più nulla.
CHI L’HA VISTO?
A partire dal 20 gennaio 1991, il caso Cervia diventa di dominio pubblico grazie alla trasmissione televisiva Chi l’ha visto?, a quei tempi ancora condotta da Donatella Raffai, la cui entrata in scena produce subito un risultato importante. Poco più di un mese dopo la prima di una serie di puntate che il programma avrebbe dedicato nel tempo alla scomparsa di Davide, alla redazione viene recapitata una lettera anonima che permette, a distanza di cinque mesi, di ritrovare la sua auto, parcheggiata nei pressi della stazione Termini di Roma. In realtà più che recapitata quella lettera è stata fatta trovare su una scrivania della redazione del programma, proprio come se ce l’avesse messa qualcuno a cui però non si è mai risaliti.
Come misteriosa rimarrà l’identità di chi l’ha scritta, che quel 12 settembre 1990, racconta, mentre camminava in via Marsala, la caotica strada che costeggia uno dei lati della stazione, aveva urtato un uomo dai capelli lunghi e biondi che corrisponde alla descrizione fornita dai primi due testimoni del rapimento di Davide. Quell’uomo, sostiene l’autore della lettera anonima, aveva parcheggiato la Golf bianca proprio lì, nella stessa via dove viene effettivamente ritrovata il primo marzo, in condizioni perfette: pulita, senza ammaccature, con all’interno dell’abitacolo le cose di Davide e al proprio posto, anch’essa intatta, l’autoradio estraibile con tanto di equalizzatore Pioneer piuttosto costoso. Se tutto questo è vero, significa che la Golf bianca di Davide è rimasta parcheggiata in via Marsala per sei mesi senza attirare le attenzioni di nessuno: né vigili urbani, né ladri di autoradio, né qualcuno tra i colleghi del suocero Alberto, di professione ferroviere, che quella zona l’hanno battuta palmo a palmo, giorno dopo giorno. Anche perché proprio lì, a pochi passi, ha sede il comitato per la verità su Davide Cervia, creato proprio da Alberto con il prezioso sostegno di Gianluca Cicinelli, giornalista di Radio Città Futura.
Anziché produrre un’accelerazione nelle indagini, il ritrovamento dell’auto che Davide stava guidando il giorno della sua scomparsa ne segna al contrario un’ulteriore e paradossale frenata. Tanto che nei successivi ventiquattro mesi ben pochi saranno i progressi da registrare. Se si esclude l’impegno mai domo dei familiari e del comitato, giorno dopo giorno, inesorabile, sulla sorte di Davide si deposita quella coltre di omertà e negligenza che già tante altre volte ha ricoperto i fascicoli di altrettanti casi misteriosi e irrisolti della storia italiana.
AZIONE DI FORZA
Fino a quando, il 12 settembre 1994, in occasione del quarto anniversario della scomparsa di Davide, il tema dei suoi trascorsi in marina torna alla ribalta grazie a un’azione di forza dei suoi familiari. Dal momento che, nonostante le reiterate richieste, i vertici della marina non hanno ancora fornito uno straccio di documento che attesti il reale curriculum di Davide, Marisa Gentile e i rappresentanti del comitato, dopo essere stati ricevuti dal vicecapo di gabinetto del ministero della Difesa, all’ora presieduto da Cesare Previti, al termine del colloquio decidono di occupare l’ufficio che li ospita, fino a quando non otterranno dal ministero l’impegno scritto a fornire la documentazione sul vero profilo di Davide. Cosa che puntualmente accade due giorni dopo, il 14 settembre, quando, al termine di un tira e molla durato oltre cinque ore, ai familiari viene consegnato un foglio matricolare contenente le informazioni fino a quel momento tenute all’oscuro anche al magistrato inquirente, e dalle quali emerge che:
— tra il settembre 1978 e il settembre 1980 Davide aveva conseguito, oltre al già noto GE, i seguenti brevetti: ECM (contromisure elettroniche disturbo emissioni radio altrui); ESM (ricerca segnali di comunicazioni radar); ECCM (disattivazione disturbo nemico);
— tutti i succitati brevetti erano stati conseguiti presso la Mariscuola di Taranto, nell’ambito del corso per Tecnici elettronici/Guerra elettronica (ETE/GE), caratterizzato da un’estrema riservatezza; dal corso in questione erano usciti circa 20 tecnici, ma solo Davide aveva conseguito la specializzazione GE;
— nel dicembre del 1980 Davide era stato trasferito alla Spezia dove, insieme ad altri tecnici, aveva curato il montaggio del sistema Albatros sulla nave Maestrale, ed era stato l’unico a occuparsi della manutenzione delle relative apparecchiature.
Alla luce di quanto sta accadendo in Medio Oriente dopo l’invasione del Kuwait da parte dell’esercito iracheno, queste informazioni tratteggiano l’ipotetico movente alla base dell’ipotetico rapimento di Davide Cervia, sottratto con la forza alla sua vita e ai suoi cari a causa delle eccezionali competenze maturate in ambito militare, che lo scenario geopolitico internazionale della seconda metà del 1990 rendeva ancora più ambite.
A conferma delle informazioni contenute nel foglio matricolare consegnato alla famiglia Cervia, in quello stesso 1994 un rapporto riservato del Sismi (Servizio informazioni e sicurezza militare) avvalora la credibilità dell’ipotesi del rapimento di Davide Cervia, come anni dopo, l’8 aprile 2013, rivelerà Alberto Gentile: «In un rapporto del Sismi che abbiamo qui c’è scritto: “È possibile che la sparizione di Davide Cervia sia legata a un rapimento a opera di organizzazioni internazionali quali la Libia, l’Iraq o Israele, con la complicità di organismi italiani. Il motivo sarebbe la specializzazione del Cervia nella guerra elettronica GE e nelle competenze indispensabili in quel periodo in quei paesi nell’imminenza della guerra del Golfo, essendo esperto nella manutenzione di apparati elettronici e armi vendute dall’Italia ai suddetti paese”».
LIBERATORIA DI LIBERAZIONE
Tra le istituzioni dello Stato per la prima volta sembra aprirsi una breccia, tanto più dopo l’insediamento del primo governo di Romano Prodi (18 maggio 1996) e l’avvento al dicastero della Difesa di forze politiche tradizionalmente meno legate alle gerarchie militari. Non a caso il 23 dicembre 1996 la famiglia Cervia e i rappresentanti del comitato sono convocati da Rino Serri, sottosegretario al ministero degli Esteri, a un incontro strettamente riservato, durante il quale accade l’inimmaginabile: per la prima volta dal giorno della scomparsa di Davide, ai suoi cari viene ventilata l’ipotesi che presto l’uomo svanito nel nulla possa ricomparire, sano e salvo, e riabbracciare così la sua famiglia. «In un incontro avvenuto alla fine dello scorso anno» racconterà Marisa Gentili sei mesi più tardi «un esponente del governo Prodi ci assicurò che la scomparsa di mio marito potesse avere un esito positivo. Chiese a me e al comitato di stare buoni per un po’, per consentirgli di avviare le trattative con i servizi segreti libici. Quindi, mi chiese di firmare una liberatoria con la quale mi sarei dovuta impegnare a non parlare mai di rapimento. […] Per mesi abbiamo taciuto, perché aspettavamo notizie. Ma questa persona non si è fatta più viva».
Nel giugno del 1997 la signora Cervia decide di rompere il patto di silenzio siglato sei mesi prima con il governo perché nel frattempo è successo qualcosa che sembra uscito dalla fantasia di un giallista sadico. Un mese prima di queste dichiarazioni, nel maggio del 1997, a casa Cervia arriva la telefonata di un uomo, tale Giovanni Vito Lo Sito, che ai familiari di Davide si presenta come un emissario del Sismi incaricato di riportare Davide in Italia. Davide, racconta Lo Sito, sarebbe stato recentemente arrestato in Romania insieme a otto cittadini libici, e la sua identità sarebbe stata confermata dallo stesso servizio di intelligence italiano, dopo la verifica della corrispondenza tra le impronte digitali del sospettato detenuto a Bucarest e quelle di Davide conservate negli archivi del Sismi. Secondo il racconto di Lo Sito, Davide avrebbe trascorso sette anni tra la Libia, il Libano e la Siria, e ora, finalmente, i servizi italiani si starebbe adoperando per riportarlo in Italia dalla Romania.
Quelle di Lo Sito, nonostante il comprensibile scetticismo della famiglia Cervia, non sembrano chiacchiere campate in aria, bensì, al contrario, circostanziate e dettagliate. E la sua promessa, per quanto azzardata, sembra concretizzarsi quando l’uomo, qualche settimana più tardi, informa i familiari di Davide che la sua liberazione è prevista il giorno 14 giugno, alle ore 16, a Roma. Anzi, giura Lo Sito, Davide sarebbe già rientrato in Italia e ora si troverebbe in Veneto, a Mestre: manca solo l’ultimo passo, organizzare il suo trasferimento verso la capitale, a bordo di un furgone già preso a noleggio. Lo Sito sollecita i familiari di Davide a tenersi pronti: nelle prossime ore riceveranno istruzioni ancora più dettagliate sul luogo dell’appuntamento, che alla fine, dopo vari cambi di programma dell’ultim’ora, viene identificato con una saletta del bar Rosati, in piazza del Popolo, dove Marisa, Alberto e tutte le persone a loro più strette si precipitano all’ora convenuta. Nonostante le rassicurazioni del misterioso intermediario, però, né Lo Sito né tantomeno Davide faranno mai la loro comparsa. La famiglia Cervia, esasperata da questo nuovo, crudele bluff, riesce a mettersi in contatto con Lo Sito, il quale si giustificherà con queste poche parole: «Mi dispiace, vi giuro che era tutto vero. La cosa è saltata per un imprevisto dell’ultimo minuto».
La reazione di Marisa Cervia a questa ennesima presa in giro è immediata. Il 17 giugno la donna convoca una conferenza stampa in cui rivela tutti i dettagli della vicenda, senza tralasciare nomi e cognomi dei suoi protagonisti, anzi, aggiungendone uno: quello di Falco Accame, presidente della Commissione difesa della Camera. E ribadisce con forza la tesi del rapimento e del movente che ne sarebbe alla base, che trova l’ennesima conferma poche settimane dopo, grazie a una nuova pista investigativa che porta poco lontano, appena al di là delle Alpi.
LA PISTA FRANCESE
Nell’ottobre del 1996, il giornalista Gianluca Cicinelli — tra i principali promotori del comitato per la verità su Davide Cervia e co-autore, insieme a Laura Rosati, del libro-inchiesta Un mistero di Stato — rivela l’esistenza di un’altra traccia che potrebbe indirizzare il caso verso una soluzione. Secondo le rivelazioni di un ex direttore in pensione della compagnia aerea Air France, nei primi giorni di gennaio del 1991 il ministero degli Affari esteri francese avrebbe acquistato un biglietto aereo per il volo Parigi-Il Cairo della compagnia di bandiera transalpina, e lo avrebbe intestato a un uomo di nome Davide Cervia. Quando quel biglietto viene acquistato mancano pochi giorni all’inizio della prima guerra del Golfo.
I servizi di sicurezza francesi affermano che sì, è vero, quel biglietto esiste, ma l’uomo a cui è intestato non è l’ex sergente in congedo della marina militare scomparso nel nulla da sei anni, bensì un militare suo omonimo proveniente dalla Corsica. Ma è una versione dei fatti, questa, che ha vita breve, dal momento che dopo poche settimane le autorità francesi rettificheranno: no, non si tratta di un militare corso né, a dirla tutta, si tratta di un uomo, bensì di una donna, tale mademoiselle Cervià, quindi la pista che doveva ufficialmente riaprire il caso in verità è una strada chiusa e nessuno indaga più.
VIOLAZIONE DEL DIRITTO ALLA VERITÀ
Dopo questa ennesima beffa, sulla scomparsa di Davide Cervia cala un silenzio cupo e impotente, a tal punto che il 5 aprile 2000 il caso viene archiviato dalla magistratura come «sequestro di persona a opera di ignoti», per l’impossibilità di rintracciarne i responsabili. Nel suo sconfortante cinismo, la richiesta avanzata dal magistrato Luciano Infelisi è coerente con quanto è stato fatto a livello investigativo nel corso dei dieci anni successivi alla scomparsa di Davide. Se si mettono in fila le carenze e le omissioni, i ritardi e gli errori, le negligenze e i depistaggi che hanno scandito l’inchiesta, l’impossibilità di accertare la verità denunciata dalla magistratura attraverso la richiesta di archiviazione è un dato di fatto. Lo stesso Infelisi, intervistato nel maggio del 2009 dalla trasmissione Complotti di La7 nel corso della puntata Davide Cervia, sequestro di Stato, dichiarava:
La mia ipotesi è che [Davide Cervia] sia stato sequestrato all’inizio anche per ragioni attinenti a quella guerra del Golfo che era esplosa proprio in quel periodo. Ma che successivamente, o volontariamente non è voluto rientrare perché ha ritrovato una sua sistemazione, un suo mondo, o, molto più probabilmente, perché purtroppo ci può essere stata una causa accidentale o una concausa al sequestro stesso per cui purtroppo non è più in vita.
«Secondo il procuratore Luciano Infelisi,» ha scritto il giornalista di Left – Avvenimenti Fabrizio Colarieti,
Cervia non aveva motivo di allontanarsi volontariamente dalla sua abitazione, né di togliersi la vita. Quel pomeriggio tornava a casa dove aveva dato appuntamento ad alcuni tecnici dell’Enel che dovevano eseguire dei lavori e per la mattina successiva aveva chiesto a un suo collega delle uova fresche per i bambini. Ci sono i due testimoni oculari le cui deposizioni sono risultate attendibili nel ricostruire quanto accadde quel giorno a Velletri, ma manca qualcosa. Manca la volontà di scavare. La storia di Davide Cervia, come tanti altri casi in cui lo Stato si è trovato a interrogare lo Stato, è scandita da inquinamenti, omissioni, depistaggi e colpevoli silenzi che non hanno permesso alla magistratura di raggiungere alcun obiettivo se non quello di lasciare aperto il caso. È inquietante come la Marina militare ha trattato il caso Cervia e come sia arrivata, in alcuni casi, anche a smentire se stessa nel comunicare agli inquirenti le reali mansioni del sottufficiale, quasi a voler nascondere le sue capacità.
Nel settembre del 2012 i familiari di Davide depositano una denuncia nei confronti dei ministri della Difesa e della Giustizia, chiamati a comparire davanti al Tribunale civile di Roma per aver violato «ciò che può definirsi il diritto alla verità» e, pertanto, tenuti a versare un risarcimento simbolico di un euro, come richiesto dalla famiglia (nonostante fosse stato stimato in ben cinque milioni di euro).
Il procedimento, iniziato il 30 aprile 2013, quasi cinque anni più tardi, il 23 gennaio 2018, giunge a una sentenza di condanna, in base al quale, come sottolineato dagli avvocati della famiglia Cervia, «il diritto alla verità viene finalmente riconosciuto esistente nel nostro ordinamento ed è definito come il diritto “a chiedere e ad ottenere, dai soggetti che le detenevano, ogni notizia ed ogni informazione relativa al proprio congiunto, al fine della individuazione delle ragioni della sua scomparsa”».
Per i giudici «le condotte del ministero, provenienti in particolare da articolazioni della Marina militare, si appalesano lesive del diritto alla tempestiva, esatta e completa informazione di Davide Cervia, con riguardo al periodo in cui era arruolato nella Marina militare italiana, ai fini della ricerca delle ragioni della sua scomparsa».
Per la famiglia Cervia la sentenza ha un valore inestimabile, perché appura una volta per tutte la trama di bugie e depistaggi ordita in quasi tre decenni. Rimane il rimpianto, sottolineano gli avvocati, «che se le notizie occultate dalla Marina militare fossero state tempestivamente comunicate, la vita di Cervia avrebbe potuto essere salvata».
«Ci siamo abbracciati e messi a piangere come bambini» commenta Marisa Cervia. «Questa sentenza mette una pietra tombale sulle illazioni e le insinuazioni gratuite anche contro di noi che le istituzioni hanno fatto in tutti questi anni. Il tribunale ha sancito che è stato leso il nostro diritto alla verità, ostacolando le indagini e fornendo informazioni false o incomplete sulla reale specializzazione di Davide, che è il movente di questo rapimento».
DALL’IMPUGNAZIONE ALLE SCUSE
La vicenda giudiziaria rischia di riaprirsi poche settimane dopo la sentenza, quando la ministra della Difesa Roberta Pinotti, titolare del dicastero durante il governo Gentiloni (dicembre 2016-marzo 2018), ne dispone l’impugnazione. Il provvedimento, però, ha vita breve dal momento che la crisi di governo, le successive elezioni politiche e l’avvento del primo governo di Giuseppe Conte portano in via XX Settembre una nuova ministra, Elisabetta Trenta, che dimostra verso il caso Cervia tutt’altra sensibilità rispetto alla collega che l’ha preceduta. Tanto da pubblicare, il 13 novembre 2018, sul profilo Facebook del ministero questo post:
Quando è scomparso, Davide Cervia aveva 31 anni. In molti di voi ricorderanno la sua storia. Recentemente il processo civile si era concluso con la condanna del ministero con una motivazione seria e senza precedenti. Una sentenza che chi ci ha preceduto aveva comunque deciso di impugnare, evidentemente non accettandone i contenuti. Ebbene, ho dato indicazione di rinunciare all’impugnazione. Dopo un’attenta lettura degli atti in possesso dell’amministrazione, ho scelto di riconoscere gli errori dello Stato nei confronti di una famiglia che merita rispetto e verità! Li ho incontrati nei giorni scorsi, a Velletri, per comunicare loro la mia decisione. Gli ho chiesto scusa e lo faccio nuovamente ora, pubblicamente, a nome del Paese e della Difesa.
FONTI:
— Senato della Repubblica, Legislatura 17. Atto di Sindacato Ispettivo n. 2-00275, pubblicato il 14 maggio 2015 nella seduta 451.
— Gianluca Cicinelli, Un mistero di Stato. Inchiesta sul rapimento di Davide Cervia, tecnico di guerre elettroniche, Datanews, 1994.
— Fabrizio Colarieti, Davide Cervia, professione fatale, Left – Avvenimenti, n. 22, giugno 2007.
— Valentino Maimone, AAA vendesi esperto di guerre elettroniche – Storia di Davide Cervia, vittima del traffico d’armi tutto compreso, Selene edizioni, 2008.
— Fabrizio Peronaci, Davide Cervia, condannata la Difesa: “Violato diritto a verità”, Corriere della Sera, 24 gennaio 2018.
— Fabrizio Peronaci, Le scuse del ministro Trenta: “Lo Stato ha sbagliato”, Corriere della Sera, 13 novembre 2018.
— Non è la radio, “La scomparsa e il rapimento di Davide Cervia, parla la figlia Erika: ‘Mio padre Davide, rapito e venduto a un paese straniero’”, podcast, 14 luglio 2020
— Radio Radicale, Presentazione del libro di Valentino Maimone AAA vendesi esperto di guerre elettroniche.
Sulla vicenda nel 2014 il regista Francesco del Grosso ha scritto e diretto un bel documentario, Fuoco amico. La storia di Davide Cervia, che si può acquistare o noleggiare qui.
Qui, invece, è possibile vedere i primi dieci minuti del film.
Alla vicenda di Davide Cervia il fotografo Alfredo Covino ha invece dedicato uno dei suoi progetti più recenti, Il caso C.
Proprio oggi, in occasione del trentennale della scomparsa di Davide Cervia, sono stati inaugurati a Roma due murales a lui dedicati: il primo, a sinistra, firmato da Gara (Gaia Flamigni) nel quartiere Ostiense, all’altezza del civico 26 di via Libetta (a sinistra); il secondo, a destra, opera di Beetrot (Riccardo Rapone), è visibile a Tor Marancia, in via dell’Arcadia 2, ed è accompagnato da una citazione del poeta e scrittore messicano Octavio Paz: «La memoria è un presente che non finisce mai».